Il 5°Clone



I giorni del Maelstrom - Parte 1 - La foresta elfica


La Foresta

 

L’estate era appena cominciata nella foresta di Sandor ma il caldo torrido tipico del clima di quella regione si era fatto sentire già dal mese di aprile, un caldo umido insopportabile per un qualsiasi umano abituato ai climi temperati ma che non arrecava alcun fastidio agli abitanti secolari della foresta, i magnifici elfi chiari che vivevano in comunione con la natura e i suoi capricci climatici sin dall’alba della loro creazione.
La città elfica era la foresta stessa, un occhio non esperto avrebbe potuto vagare per giorni fra i maestosi alberi e le enormi radici senza accorgersi che quelle meraviglie arboree, quei quarzi spettacolari che si ergevano dal terreno come menhir naturali, quelle liane intrecciate come reti o tappeti esotici, erano in realtà le dimore delle creature incantate della foresta, che saettavano silenziosi fra i rami osservando gli sconosciuti impauriti dalla vastità del luogo.
Nonostante questo il reame di Sandor era molto conosciuto in tutta Duur, chiunque si fosse addentrato in quei luoghi sapeva di essere sotto gli occhi vigili dei ranger elfici, ma ciò che molti non sapevano era che quelli degli elfi, non erano gli unici occhi della foresta.
Sulla riva di un ruscello chiamato Sh-ilna'riv dagli elfi (acque d'argento) il vento emetteva strani sibili, agitato dal vorticare armonioso ma deciso di due lame di acciaio brunito che danzavano fendendo l'aria istigate dall'abilità del loro maestoso possessore, chi non avesse mai visto un elfo e si trovasse di fronte a Grifis e al suo spettacolo marziale, di certo sarebbe rimasto estremamente confuso e si sarebbe detto che le leggende avevano quanto mai distorto la realtà.
Gli elfi erano creature minute e estremamente leggiadre, gli arti esili e i movimenti cosi armoniosi da sembrare, ogni momento, che fosse il vento a decidere dove dovessero mettere i piedi, ma Grifis degli elfi aveva soltanto la tanto decantata leggiadria.
Alto oltre due metri, le braccia forti e nerborute come tronchi d'albero si muovevano veloci come serpenti nel kata delle due lame, la pelle, protetta solo da un giustacuore di cuoio e da dei gambali forse di una taglia un pò inferiore alla sua, sembrava di metallo dorato leggermente screziata, non liscia e glabra come avrebbe dovuto essere quella degli elfi, né pelosa come quella di nani ed umani.
Il viso fine come quello elfico con le orecchie puntute e vigili, i capelli lunghi e neri come le piume dei corvi, lucenti e legati in una lunga treccia.
Infine gli occhi, occhi che nessuno al mondo avrebbe potuto dimenticare una volta incrociato il suo sguardo, occhi a mandorla grandi e penetranti, pupille ampie che vorticavano in un gioco di luci facendole sembrare di oro fuso, uno spettacolo unico avrebbero detto in molti, ma si sbagliavano, unico non era la parola giusta.
A non meno di cento metri una creatura identica, ma dall'espressione totalmente diversa, sedeva in contemplazione a gambe incrociate su una grande pietra levigata dal tempo, era piatta e fumante a causa del sole cocente ma la pelle di Uriel non avvertiva i morsi del calore, il corpo nudo, a parte piccoli pantaloncini scuri tenuti stretti in vita da una corda di seta, era incredibilmente possente, con muscoli torniti e armoniosi perfettamente tenuti in allenamento. Diversamente dal fratello l’arma di Uriel non erano le spade ma il suo corpo, la sua anima e la coscienza di se stesso. Il suo respiro equilibrava la sua mente rendendolo una cosa sola con la natura intorno a lui.
Era prerogativa dei cosiddetti figli del drago, la grande forza e l'insensibilità al calore, creature ancora più leggendarie degli elfi stessi, dall'indole intrisa di giustizia ma dal passato pieno di ombre.
Il kata di Grifis terminò con un affondo generoso nel ruscello, nel momento stesso in cui il fratello Uriel aprì gli occhi terminando la sua meditazione, Grifis ritirò la spada facendo affiorare alla sua estremità una carpa guizzante, "Questa e per la cena." disse il mezzodrago sorridendo pieno di fiducia verso il monaco.
"Non mangio carne.. lo sai." fu il commento serio e tagliente del fratello che si stava adesso alzando dalla sua pietra meditativa, "Rimbambire i pesci con i tuoi movimenti fa parte del tuo allenamento? La danza che ti è stata insegnata serve a metterti in amicizia con la natura, non usare quell'amicizia per poi tradirla. Se vuoi pescare fa che la tua sia una lotta fra te e il pesce, non richiamarlo a te con false promesse."
Grifis rigirò gli occhi sospirando, i sermoni del fratello erano ormai diventati quotidiani, anche se in fondo era quello che gli diceva sempre anche il maestro Althanas. Grifis si scusò silenziosamente con la carpa che ormai aveva smesso di agitarsi, e la infilò nel suo piccolo cestino di rete, ormai l'aveva presa, tanto valeva mangiarla.
Con passo leggero, nonostante la mole, i due fratelli dorati (così li avevano soprannominati gli elfi) si diressero verso il tempio della stella, il luogo di culto degli abitanti di Sandor, una chiesa insolita perché non era votata ad un dio specifico.
Era un luogo dove ognuno poteva pregare e professare la propria fede senza timore e imbarazzo verso gli altri abitanti di Sandor, che per inciso erano si, in prevalenza elfi, ma la foresta era anche piena di tante altre creature e tanti culti diversi.
Tuttavia gli elfi non tolleravano che qualcuno adorasse o pregasse Dei contrari ai loro principi e questo escludeva dal tempio della stella i sostenitori di culti blasfemi e malvagi, ma questo era un problema secondario e mai apparso nella regione di Sandor perché gli elfi in ogni caso difendevano con la spada i loro confini da tutte le creature palesemente malvagie e da invasori stranieri.
Uriel e Grifis arrivarono alla Piazza del Raduno dove sorgeva il Tempio della Stella in tempo per vedere Auron mettere in pratica il suo ultimo giochetto.
Non appena misero piede nella radura squilli di trombe improvvisi echeggiarono dagli alberi come in una marcia reale, i due fratelli si guardarono intorno sconcertati in cerca degli occasionali trombettieri e cosi fecero anche i vari elfi che passeggiavano per la piazza.
Ma fra gli alberi non c’era nessuno che tenesse in mano una tromba, che tra l’altro non era uno strumento in voga fra gli elfi, e i pochi che si nascondevano fra le fronde sembravano incuriositi da quello squillo tanto quanto i due mezzo-draghi.
Una risatina compiaciuta attirò lo sguardo dei due fratelli su una grossa quercia la cui corteccia era ornata da simboli crepitanti di una fioca luminosità, sul ramo più ampio dell’albero con in mano un pesante libro rilegato in pelle e corda, un elfo quanto mai singolare agitava le dita in segno di saluto.
Auron non era affatto gracile come poteva esserlo un qualsiasi elfo, il suo corpo era rigoglioso e possente come quello di un umano ed anche di più, la sua fisionomia era senza dubbio elfica come quella della madre, morta dandolo alla luce, ma i tratti del padre erano molto più evidenti.
Due grandi ali piumate si estendevano dalle spalle del elfo chiaro come quelle di un airone gigantesco, le ali così come la sua corporatura robusta erano eredità del padre, un padre che lui non aveva mai conosciuto ma che era sinonimo di leggenda nella foresta di Sandor.
Molti ricordavano ancora le gesta di Alatar il Deva, evocato dal Monte Celestia per salvare gli elfi dalla minaccia di Saralean, una potente demonessa figlia di Noth che aveva corrotto l’anima di Priaman l’alto sacerdote di Tarkus e stava sprofondando gli elfi di Sandor nell’oscurità, imponendo riti sacrileghi.
Durante quella battaglia che vide gli elfi impegnati in una guerra fratricida Alatar sconfisse Saralean, e l’alto sacerdote morì in lacrime fra le braccia del Deva che aveva riportato in lui la coscienza di un tempo, offuscata alle maligne macchinazioni della demonessa.
Fu allora che Alatar lasciò agli elfi e agli altri popoli di Sandor un dono che li avrebbe aiutati a rimanere nel giusto e a combattere le forze dell’oscurità.
Due figli, Auron frutto dell’unione fra il Deva e Sinafael la allora giovane principessa della foresta di Sandor che simboleggiava l’alleanza del celestiale con il popolo elfico, e Alexander figlio suo e di Kadiria una guerriera umana dall’animo passionale e giusto che aiutò il Deva nelle battaglie contro Saralean.
I due bambini avrebbero vissuto e protetto la foresta da nuove minacce legate alle mire di dei oscuri. Gli elfi pensavano che le strade dei due bambini sarebbero state chiare e ben delineate dalla loro natura, vedevano Auron come nuovo sacerdote di Tarkus a presenziare l’altare del tempio della Stella (del resto lui era figlio della principessa) e Alexander al suo fianco con in mano una lucente spada (futuro dono di suo padre speravano gli elfi) a istruire e comandare le forze di tutti i popoli di Sandor nell’arte della battaglia e della misericordia.
La strada scelta dai due fratelli fu invece diversa, con grave rammarico degli elfi non fu Auron ma Alexander a istruirsi nei precetti della chiesa della Stella, l’anima del padre Deva era più presente nel figlio metà umano che in quello elfico che preferiva il fascino della magia e della natura (eredità della madre) ed effettivamente Alexander una volta cresciuto sembrava in tutto e per tutto suo padre.
Splendido quanto lui sia nell’aspetto che nel portamento, le ali piumate ancora più grandi e maestose di quelle del fratello, non c’era quasi traccia della madre nei suoi lineamenti a parte gli occhi azzurri e pieni di fuoco come quelli di lei e l’animo passionale e autoritario che tradivano a volte la sua natura terrena.
Auron scese dalla sua quercia sorridente e con un leggero colpo d’ali planò accanto ad Uriel e Grifis che si erano soffermati ad osservare gli altri elfi che sbuffavano un po’ irritati dall’ennesimo giochetto magico del mezzo-celestiale.
“Pensavo di utilizzare questo nuovo incantesimo quando mio fratello si alzerà in volo sui fedeli e impartirà la sua benedizione mattutina in nome di Tarkus e degli dei di Sandor, voi che ne dite ragazzi? Non sarebbe un bell’effetto scenico?” disse Auron ai due fratelli, con la sua tracotante e fin troppo conosciuta malizia.
“Non credo che Alexander apprezzerebbe il tuo gentile gesto.” disse Uriel con soppesato sarcasmo, il monaco non apprezzava gli sfoggi di arroganza e superiorità con cui si atteggiava Auron, lo conosceva da molto tempo ormai, era una persona dalle indubbie qualità e dall’animo giusto ma era estremamente pieno di sé e poco tollerante, un difetto che aveva in comune con il fratello ma che in lui spiccava maggiormente, del resto tutti gli elfi erano un po’ altezzosi.
“Sarà meglio che tu lo usi per spaventare i grizzli che si avvicinano alla radura piuttosto che per mettere in imbarazzo gli abitati, tu che ne pensi Grifis?”
Uriel si era appena girato per rivolgere quella frase al fratello ma si accorse che Grifis, disinteressandosi totalmente della discussione, non era più lì. Il ranger si era dileguato in fretta sia perché sopportava ben poco il modo di fare di Auron sia perché nell’aria aleggiava un profumino di torta alle bacche rosse e noci, proprio niente male, che lui, esperto fiutatore di piste, si era già messo a tracciare.
Muovendosi furtivo in mezzo alla radura, Grifis adocchiò la sua preda fumante poggiata sul tavolo in pietra di fiume della sua ben nota amica Lirin Watchwood, non era la prima volta che Grifis si trovava in quella situazione, i manicaretti dalla cuoca più rinomata della Radura erano una tentazione irresistibile per il goloso ranger, ma erano anche davvero difficili da conquistare, Lirin sbucava sempre dal nulla prendendo il ranger con le mani nel sacco e a cucchiaiate in testa, tanto che Grifis ormai aveva considerato quel piccolo furtarello, che per inciso non gli era mai riuscito, come un ulteriore prova in aggiunta alle già impegnative prove che Althanas gli lasciava ogni giorno. In realtà era stato proprio Althanas a mettere sull’avviso Lirin delle debolezze del ranger, in modo da imporre al suo allievo un ulteriore incentivo per tenersi in allenamento, ma questo Grifis non l’aveva ancora scoperto.
Strisciando come un serpente che cerca di mimetizzarsi fra l’erba e le rocce, Grifis arrivò senza fare alcun rumore fin sotto il tavolo di Lirin, la sua visuale in quel punto gli impediva di scorgere la torta sul pianale del tavolo ma il ranger aveva già preso nota della sua posizione e studiato bene le sue mosse.
Rimase in silenzio qualche secondo, cercando di avvertire i movimenti di Lirin, non l’aveva vista ma era sicuro che fosse lì da qualche parte. Purtroppo il ranger sapeva che come ogni elfo che si rispetti Lirin era silenziosissima nel muoversi, il fatto di non aver sentito nulla a parte il fruscio del vento non lo rassicurava affatto. Prendendosi di coraggio mosse velocemente, senza sporgersi, il braccio sul tavolo nel punto in cui presumibilmente c’era la gustosa torta.
La sensazione di morbidezza e calore che affioro sulle due dita incuriosì alquanto Grifis, anche se non era mia riuscito a prendere la torta intera aveva assaggiato più di una volta le fette dolci e croccanti del dolce, al tatto adesso invece sentiva qualcosa di molto diverso, più gommoso.. o per meglio dire.. carnoso.
Sgranò gli occhi in preda al panico quando si accorse che quello che aveva afferrato non era la torta della bella cuoca. Si mosse lentamente affiorando da sotto il tavolo, Lirin era lì con la torta appena presa in mano, e la mano di Grifis ben salda sul suo seno.
Lo sguardo furioso della cuoca elfica trafisse il ranger che staccò la mano gridando e rotolò per terra all’indietro in tempo per schivare un cucchiaione di legno ancora caldo dell’ultimo impasto mescolato.
“Disgraziato!” gridò Lirin verso il fuggitivo “Quante volte ti devo dire che è in offerta per il Tempio! Ti lascerò digiuno per una settimana se ci riprovi!!”
“Ero venuto a prenderla proprio per il tempio infatti, che credevi? Sia lode al tempio di Grifis il ranger!!” Acclamò il mezzo-drago indicando ironicamente verso il proprio stomaco mentre correva voltato verso l’elfa e non vedendo dove metteva i piedi. Inarcò un sopracciglio quando vide Lirin sorridere divertita mentre lui correva.
L’attimo dopo si ritrovò a terra rintronato dopo aver sbattuto contro qualcosa che a primo acchito gli sembrò una colonna di marmo.
Un grugnito familiare gli fece comprendere che quella colonna era in realtà suo fratello Uriel che era venuto a cercarlo.
“Hai finito di giocare?” chiese Uriel al fratello, “Alexander ci ha mandati a chiamare più di mezz’ora fa, ha detto che era urgente, muoviamoci.”
Grifis si massaggiò il capo indolenzito e indirizzò un ultimo fugace sguardo verso Lirin che ammiccava maliziosa sorridendo, e alla sua torta che scompariva insieme a lei mentre l’elfa rientrava in casa.
Rialzandosi nuovamente sconfitto dalla sua più acerrima nemica/amica del luogo, Grifis segui il fratello verso il Tempio della Stella, anche questa volta della torta gli sarebbe toccata solo una misera fetta.
I fratelli videro Auron seguirli sghignazzando fra i denti, evidentemente l’elfo dalle ali piumate aveva assistito all’imbarazzante scenetta dell’apprendista ranger e non ne faceva mistero, Grifis sbuffò irritato, si chiedeva come facesse Auron ad essere sempre ovunque anche quando nessuno lo voleva fra i piedi, una domanda che anche Uriel si faceva spesso ma una volta tanto la risposta era semplice, il Tempio era di strada e probabilmente anche Auron era stato convocato dal fratello.
Arrivarono quando ormai era passato mezzogiorno, nel tempio, costruito fra le radici mastodontiche di una sequoia secolare e ornata di cristalli bianchi e purpurei, spiccavano intagliati in grandi pietre lisce di fiume i simboli dei principali tre dei della foresta.
A sinistra il simbolo di Bahamut dio dei Draghi buoni, la grande stella di Platino sullo sfondo stellato. Era stato lo stesso Uriel aiutato dal fratello a dipingere il simbolo sulla pietra e Grifis aveva intagliato la stella utilizzando la sua stessa spada.
A destra spiccava il simbolo di Arbor, Dio degli elfi e dei figli della foresta, un rampicante fiorito che si attorcigliava su uno spicchio di luna, anch’esso dipinto con abilità su un disco di pietra liscia.
Infine al centro, sulla parete nord del tempio, sostenuto dalle radici della sequoia si ergeva il simbolo di Tarkus, un sole giallo infuocato con al centro una stella a sei punte. Sotto il simbolo luminoso vi era l’altare della stella ed una piccola vasca piena d’acqua limpida.
Alexander era intento a pregare in ginocchio vicino all’altare, la polla d’acqua risplendeva di una fioca luce azzurra che illuminava anche il sacerdote. I due mezzo-draghi e persino Auron decisero di rimanere in silenzio finché Alexander non avesse finito quella comunione spirituale. Nel tempio non vi era nessun altro a parte loro.
Il chierico si alzò aprendo gli occhi e la luce dell’acqua svanì lentamente, si girò verso i tre compagni che aveva convocato con la sua usuale espressione decisa e infervorata.
“Grazie per aver risposto in così breve tempo alla mia richiesta di vedervi, amici miei.” cominciò con fare cordiale il sacerdote di Tarkus, la sua voce era sempre melodica e chiara, tanto che era estremamente difficile non portare attenzione a ciò che diceva, il fascino mistico del mezzo-celestiale faceva in modo che i suoi sermoni non fossero mai un peso, ma sempre un sollievo.
Tuttavia Auron si rese conto che il fratello si era rivolto a loro in maniera un po’ troppo accondiscendente, considerando il fatto che in effetti aveva richiesto la loro presenza almeno mezz’ora prima.
“Cosa è accaduto Alexander?” si azzardò quindi a chiedere interrompendo il fratello.
“Non lo so ancora fratello.” fu la sincera risposta del chierico, “Due sere fa, ho fatto un sogno, un sogno vivido e terribile, ho chiesto consiglio a Tarkus per fugare le mie paure, ma sono state solamente confermate.”
Il sacerdote si prese una pausa e scese dall’altare portandosi allo stesso livello dei suoi amici.
“Quattro lune nere vorticavano in un cielo fatto di ombre, si muovevano come per scontrarsi ma poi come per un accordo tacitò si allinearono formando una fila ordinata che si stringeva sempre di più.
Le lune finirono per unirsi l’una con l’altra, formando un grande disco nero e i suoi bordi cominciarono a brillare di un intenso colore porpora.
La sensazione che mi assalì fu di assoluto sgomento e incapacità di reagire, vedevo i popoli di ogni nazione diventare cenere e polvere, qualcosa era rinato, qualcosa di antico e primordiale, qualcosa che chiedeva vendetta e riusciva ad ottenerla.
La luce era scomparsa e non sarebbe più tornata, mai più.”
I quattro rimasero in silenzio per qualche attimo, poi inaspettatamente fu Grifis a prendere la parola.
“Be, era un sogno no? Anch’io alle volte sogno cose del genere sai? Ma quando mi sveglio mi rendo conto che la colpa era del maiale pepato di Lirin, sinceramente quella ragazza a volte esagera con le spezie.”
Uriel non si girò nemmeno a guardare in tralice il fratello, si era aspettato un uscita del genere da lui, ma sorrise accorgendosi che la cosa aveva allentato la tensione sul viso di Alexander.
Auron invece non sembrava molto impressionato da ciò che aveva detto il fratello, per lui era sempre tutto facile, tutto un gioco.
“Cosa pensi voglia significare ciò che hai visto?” disse Uriel al sacerdote comprendendo la serietà della situazione.
“E’ per scoprirlo che vi ho fatto chiamare.” disse infine il chierico.
“Devo mettermi in contatto con qualcuno che forse conosce qualcosa di più su questa storia. Le mie divinazioni non sono sufficienti per interpretare il mio sogno, ma mi hanno indicato una strada.”
“Oltre la foresta vi è un monastero, l’ho visto chiaramente. In una delle sue stanze si trova una colonna di marmo e ossidiana con il simbolo di Tarkus alla sua sommità, rune magiche la avvolgono, è un oggetto molto potente.” L’argomento destò finalmente l’interesse di Auron.
Se la mia visione mi ha indicato quella struttura allora devo raggiungerla per capire cosa sta succedendo, è un viaggio lungo.” continuò il mezzo-celestiale.
“Un viaggio che non ti permetteremo di fare da solo.” concluse Uriel per lui.
“Il mio intento non era coinvolgervi in maniera diretta, ma volevo che foste i primi ad essere avvertiti. Accompagnarmi può essere molto pericoloso, non siamo mai usciti dalla foresta prima.”
Il sacerdote disse quelle parole con sincerità, ma si vedeva che in cuor suo si aspettava quel tipo di collaborazione.
Auron era decisamente incuriosito dalla faccenda, più di una volta aveva espresso il desiderio di uscire da Sandor per conoscere il resto del mondo, aveva sentito storie di tutti i generi provenire dai visitatori occasionali, purtroppo quei visitatori erano così rari che avere un quadro della situazione corrente al di fuori di Sandor era davvero arduo. E poi c’era la faccenda della colonna, un oggetto magico definito dal suo stesso fratello “molto potente”, finalmente avrebbe visto qualcosa di più di semplice magia elfica, si, non avrebbe fatto andar via solo il fratello.
L’unico un po’ titubante sembrava Grifis, certo l’idea di conoscere meglio la sua foresta (l’avrebbero attraversata tutta per arrivare dove intendeva Alexander) e conoscere luoghi totalmente sconosciuti lo allettava molto, si pregustava di farsi bello e colto di fronte a Lirin che aveva vissuto sempre a Sandor senza mai varcarne i confini.
Ma il viaggio sarebbe stato di certo lungo, per quanto tempo si sarebbe scordato il profumo della sua amata torta di bacche e noci? E soprattutto, non avrebbe più rivisto Lirin e il suo sorriso fino al suo ritorno. Che doveva fare?
“Quanto durerà questo viaggio?” chiese allora il ranger con voce meno divertita del solito.
“Conosco solo la direzione da prendere, non la distanza.” rispose Alexander intuendo l’insicurezza dell’amico. “Non sei obbligato a venire con me come ho già detto prima, la decisione è solamente tua, non intendo mettere a rischio nessuno di voi.”
Grifis rimase un attimo in silenzio, si guardò intorno e incrociò con lo sguardo il simbolo di Bahamut che lui stesso aveva tracciato. La stella del suo dio gli ricordò immediatamente che i suoi primi doveri erano verso la sua chiesa e non verso se stesso. Tarkus aveva richiesto l’aiuto di Alexander e il fatto che il chierico avesse convocato lui e suo fratello mettendoli al corrente della missione, indicava che anche Bahamut stava chiedendo il suo aiuto.

“La mia spada è al tuo servizio.” disse infine il ranger rivolgendosi sia al sacerdote che al simbolo del Dio dei Draghi.

Pannello Utente



Chi c'è online

    Prossimi eventi

     

    Ultimi file da scaricare

    Creata sulla base delle liste by Darken&Erestor, ringrazio Necrid per avermi permesso di util...

    Immagini dalla galleria