Le Quattro Pietre - Capitolo 1



Capitolo 1 - Prologo



Timidi raggi del sole mattutino filtravano fra le fronde della vegetazione della radura, annunciando l’avvento di un nuovo giorno. Solleticato dal tepore della luce, Haldir si svegliò e aprì gli occhi sbattendo le palpebre. Sopra di lui i rami degli alberi s’intrecciavano formando un intricato disegno fatto di luci e ombre. L’elfo aspettò che i suoi occhi si abituassero alla luce e, ripiegando il suo rudimentale ma caldo giaciglio di pelliccia si alzò da terra.

Ark non aveva abbaiato durante tutta la notte e al momento probabilmente era a procacciarsi la colazione inseguendo qualche coniglio; Haldir osservò che le trappole che aveva sistemato la sera precedente erano ancora al loro posto, intatte. Alzatosi in piedi, prese la sua leggerissima cotta di maglia di chiara fattura elfica e la indossò, avendo cura di non stringere troppo i legacci di cuoio, per non avere impacci nel movimento. Dopo di che raccolse da terra la sua spada corta e la sguainò, mettendola contro luce. Nell’uscire dal fodero l’arma emise solo un sottile sibilo.

- Non c’è necessità di oliare un’arma come questa…- mormorò l’elfo.

Ammirò, come suo solito, la perfetta tagliente levigatezza del filo della lama e la lucentezza dell’adamantio, che luccicava al sole del giorno, così lucido da abbagliare.

Soddisfatto, Haldir ringuainò la spada e se la legò intorno alla vita, così che cadesse sul fianco sinistro. Direttosi al centro della radura, distante pochi metri, accese il fuoco, come adorava fare fin da bambino con due pietre sfregate l’una contro l’altra, e riscaldò gli avanzi del cervo abbattuto il giorno precedente. Mangiando rifletteva sul suo viaggio, ripensava al suo villaggio distrutto dagli orchi e s’interrogava sulla sua ricerca d’avventure coi nuovi compagni. Stava diventando un avventuriero? Così come gli stranieri che sua madre gli vietava di frequentare da bambino? Vita rischiosa, armi, vagabondaggio…si, ma tante avventure, come quelle che sin da piccolo, sgattaiolando fuori di casa la sera tardi nonostante i divieti dei genitori, andava ad ascoltare alla locanda del suo piccolo e monotono villaggio di contadini. Storie di draghi, maghi malvagi, figure mitiche e mostri dai nomi impronunciabili. Rimaneva a bocca aperta per ore quando un guerriero stanco si fermava ad Ellox e scioglieva la lingua con qualche birra. Nella sua innocenza di bambino aveva creduto a tutto ciò che aveva sentito, nella sua consapevolezza di adulto aveva imparato anche a temere le verità di quei racconti. Eppure essi continuavano a suscitargli curiosità e fascino…come avrebbe voluto diventare il protagonista di una di quelle ballate che i bardi cantano nelle fredde sere d’inverno! Ma ora le canzoni erano lontane, i paesaggi erano diversi come i compagni, e i suoi genitori non facevano più parte del suo mondo, trucidati dalle orde delle Terre Selvagge.

Scacciando di colpo queste nubi grigie dalla sua mente, Haldir si alzò e si diresse al limitare della radura, affacciandosi nella pianura. Là, al centro del verde interrotto solo da sporadici alberi e da una foresta lontana, là era il suo futuro: la città di Feanor. Ormai il sole aveva completato il suo ingresso nella volta celeste, e la città era visibile in piena luce, a circa otto chilometri, giudicò Haldir. Le mura di pietra si stagliavano imponenti interrompendo bruscamente la monotonia della pianura, la parte elevata della città rivelava strutture maestose, templi, palazzi nobiliari, fortificazioni, le cui vetrate splendevano e i cui colori vivaci ispiravano al giovane elfo una nuova vita. Chiuse gli occhi e immaginò la città coi suoi mercati e i suoi fabbri, il brusio della quotidianità, la lucentezza delle armature delle guardie, il sorriso degli abitanti, la sontuosità dei palazzi.

- Forse sarà un bel futuro. – mormorò.

Una mano lieve si posò dolcemente sulla sua spalla, distogliendolo dai suoi pensieri e facendolo sussultare.

- Ammiri forse il panorama con gli occhi chiusi, Haldir? – chiese l’elfa alle sue spalle.

- Non si ammira solo con gli occhi mia dolce fanciulla, credi? – rispose dopo qualche attimo l’elfo, senza distogliere lo sguardo dal paesaggio.

- Sei più saggio di qunto avessi immaginato mio buon amico.

Haldir osservò l’esile e perfetta figura dell’elfa allontanarsi nella fresca radura, con una grazia tale, che pareva camminare a un palmo da terra. I suoi lunghi capelli neri cadevano sciolti sulle spalle, coperte da una veste rossa, che arrivava fino ai piedi, stretta in vita da una fascia nera a cui era appesa solo una piccola borsa di cuoio. Le braccia erano interamente scoperte fino ai polsi, nascosti da due lucidi bracciali dorati.

Lilith non aveva sicuramente più di centoventi anni, e la sua bellezza era abbagliante: la sua pelle vellutata avrebbe fatto invidia alla regina di Lothorn e le sue forme non avevano nulla da invidiare ad una danzatrice di corte.

Lilith…un nome affascinante e misterioso proprio come lei, osservò Haldir. La giovane elfa era nel fiore degli anni, eppure aveva già raggiunto una maturità e una sapienza degne di un anziano saggio. Non portava armi, ma poteva disintegrare tigri con fulmini che partivano dalle dita in modo assolutamente ignoto ad Haldir. L’elfo non aveva mai assistito a magie prima di incontrarla; certo, ne aveva sentito parlare, ma mai aveva visto all’opera la più potente di tutte le arti.

Di Lilith non sapeva nulla, nonostante le loro lunghe discussioni non era mai riuscito a carpire una notizia del suo passato, dove avesse imparato la magia o semplicemente da dove venisse Haldir l’ignorava. Questo accresceva sempre più la sua attrazione verso di lei, bellissima e di una maestosità ignota allo stesso tempo, capace di farti sciogliere con un sorriso ma di gelarti con uno sguardo di fuoco dei suoi occhi neri come la pece.

Distogliendo l’attenzione, ormai divenuta estasi, dall’elfa, Haldir decise che era tempo di recarsi al ruscello per fare scorta d’acqua. Attraversò i giacigli ancora stesi dei due compagni e si specchiò, non senza un briciolo di vanità, nello scudo di mitrhal del chierico.

Non male per un contadino, pensò l’elfo. I suoi muscoli non erano eccessivamente sviluppati, ma perfettamente pronunciati, tesi e flessuosi, temprati dalla vita dei campi. Haldir era molto più alto della media degli elfi, quasi un metro e ottanta, ma non per questo deficeva in destrezza, prerogativa della sua razza. Rubando ai mercati nei tempi di carestia, quando i morsi della fame si facevano sentire come non mai, era diventato scaltro, vigile e veloce; inoltre era stato segretamente iniziato all’arte del combattimento con la spada dal connestabile del suo villaggio, dimostrando una naturale predisposizione. Ma la sua specialità erano i trabocchetti. Le sue dita sottili e precise erano in grado di costruire trappole perfette, e naturalmente di disattivarle. Aveva sviluppato un sesto senso per quest’ultima abilità: un sottile filo o un minuscolo foro non sfuggivano mai ai suoi occhi acuti color verde smeraldo.

Haldir camminò per lo stretto e tortuoso sentiero del bosco, seguendo il chiaro suono del vicino corso d’acqua, respirando a pieni polmoni l’aria frizzante del mattino mista a quell’aroma salubre e piacevole emanato dalla rugiada che evapora. Dopo pochi minuti raggiunse il ruscello e vide Torxen inginocchiato sulla riva. Sul punto di chiamarlo a gran voce Haldir si fermò, poiché s’ accorse che il chierico stava pregando. Incuriosito dalla scena, l’elfo aggirò la figura del compagno, che gli dava le spalle, per poterlo osservare in silenzio lateralmente. L’uomo, circa quarantenne, era inginocchiato proprio in riva al ruscello, il volto inondato di luce, come tutto il corpo, gli conferiva un aspetto mistico; la lieve risacca del piccolo corso d'acqua gli lambiva delicatamente, a tratti, le vesti, ma egli non sembrava accorgersene. Le sue labbra si muovevano senza emettere suono, le parole erano direttamente rivolte al dio il cui simbolo sacro stringeva nelle mani tese davanti a se. In quel momento, pensò Haldir, per Torxen in riva al ruscello non c’erano più i suoni della natura, ma solo lui e la sua divinità. La testa rasata del chierico si piegò lentamente all’indietro, sostenuta dal collo poderoso, provocando un lieve tintinnio degli anelli del giaco di maglia; le sue mani rimasero invece immobili, come tutto il resto del corpo. Di colpo l’uomo aprì gli occhi e lasciò che la luce del giorno lo abbacinasse lievemente. Dopo di che, alzatosi, riponendo il simbolo della divinità nella borsa appesa alla sua larga cintura, notò il compagno che lo stava osservando.

- E’ forse tua abitudine stupirti davanti alla preghiera di un fedele, Haldir figlio di Halmir? – proruppe in tono altero.

- Ehm…in verità ero rimasto…affascinato dalla scena, mi dispiace se ti ho recato disturbo. – si scusò Haldir imbarazzato.

La bocca serrata del chierico si stese in un sorriso – Non importa. – disse.

La religione. L’argomento aveva sempre messo in difficoltà Haldir, sin da bambino. Credere in qualcosa di sovrumano che ha creato il mondo e che vi spadroneggia a suo piacimento non era un’idea che aveva mai apprezzato. Certo, alcuni dèi erano buoni, molti sacerdoti curavano le malattie, alcuni persino risuscitavano guerrieri morti in battaglia, ma l’idea di non essere libero di gestire la sua vita non gli era mai piaciuta.

“Ti accorgerai dell’esistenza e della necessità degli dei quando smetterai di pensare solo a te stesso. Quando vedrai il meraviglioso disegno divino del mondo, quando imparerai ad apprezzare il perfetto gioco di specchi contrapposti fra bene e male, allora troverai gli dei, prima sarebbe una ricerca inutile”. Così gli aveva detto Torxen alla luce di un fuoco, discutendo sull’argomento.

Non ne era convinto. A questo mondo, pensava Haldir, tutti sono pronti a tradire, tutti sono pronti a vendersi per denaro, come posso pensare agli altri se a mala pena riesco a sopravvivere e a non essere sopraffatto?

Le sue riflessioni furono interrotte dal richiamo dei compagni e dai latrati di Ark, evidentemente tornato. Riempite le borracce si affrettò alla radura, dove Torxen e Lilith erano già pronti. Gli occhi dell’elfo caddero sul grave carico del chierico, che, indossando sopra al giaco un’armatura completa finemente decorata, oltre allo zaino e allo scudo doveva farsi carico anche di una morning star pesante, una di quelle mazze di ferro con la cima rinforzata da numerose punte.

Raccolte le sue cose li raggiunse e insieme partirono alla volta di Feanor. Ognuno di loro sembrava assorto in profondi, intimi e personali pensieri.

- Vi giungeremo nel primo pomeriggio – disse Haldir, rompendo il silenzio.